Sulla mia carta d’identità alla voce “Professione” c’è scritto archeologa.
Lo stupore della funzionaria comunale che qualche anno fa raccolse la mia imbarazzante dichiarazione, ricordo bene, era palpabile. Cosa farà mai un’archeologa, si sarà chiesta la ligia impiegata statale mentre con occhi sbarrati mi guardava, sperando che ci ripensassi. Scava buche in aperta campagna o nel giardino della propria abitazione alla ricerca di monete e tesori nascosti? Organizza spedizioni esplorative nel Sud dell’America o traversate del deserto? Gira film d’avventura e fantascienza come Indiana Jones?
Eppure nulla di tutto questo rientra nella categoria concettuale, politicamente corretta, di mestiere regolarmente retribuito e come tale riconosciuto e apprezzato dai più.
Nulla che potesse realmente persuaderla dell’opportunità di assecondare, senza troppe storie, la mia ferma volontà.
Il mio sguardo risoluto e niente affatto intimorito credo sia bastato, tuttavia, a farla desistere dal muovermi ogni qualsivoglia obiezione e a convincerla a mettere per iscritto quanto dichiarato.
Come far capire, a lei e tanti altri, che il mio titolo è frutto di anni di studio appassionato, di sacrifici, di rinunce, di tasse pagate, di esperienza sul campo, di ricerca scientifica spesso condotta in condizioni estreme e improbabili, di estenuante precariato?
Tutte le volte che ho tentato di spiegare ai miei ignari interlocutori in cosa consista il mestiere di un archeologo, ciò che più mi ha sorpreso, a parte la disinformazione che spesso circola su questa professione, è stato avvertire minaccioso su di me, lo sguardo commiserevole di chi, pur apprezzando gli sforzi di quanti cercano di concretizzare i propri sogni infantili e pur affascinato dalla potenza di una tale passione, non si capacita che si possa o si presuma di vivere di sola archeologia.
Credo sia proprio questo atteggiamento disfattista, disincantato, surrealistico, superficiale che oggi autorizza persino un Ministro della Repubblica ad apostrofare i giovani precari come i “peggiori d’Italia”, senza minimamente preoccuparsi che ciò possa offendere, ancor prima della nostra plurititolata intelligenza, la nostra dignità.
Ed è sempre a causa di questa visione cieca e immorale della realtà odierna che milioni di giovani, che come me gravitano attorno al settore dei beni culturali, non riescono a trovare una benché minima garanzia per il loro futuro professionale, nonostante la laurea, la specializzazione, il dottorato di ricerca, lo studio delle lingue, le esperienze all’estero, la rabbia che li spinge a non mollare e ad andare avanti, se non per sé almeno per i propri figli, ammesso che decidano di metterli al mondo.
In Italia ci sono centinaia, forse migliaia di archeologi, molti dei quali donne.
Sono rimasta stupita anch’io dall’alta percentuale di operatrici dei beni culturali nel nostro Paese, quando, miracoli della moderna tecnologia, mi sono imbattuta, nella rete di facebook, tra le maglie di un gruppo che si chiama “Se non ora quando. Archeologhe che (r)esistono”.
Ad ingrossarne le fila, le quote rosa dell’archeologia italiana, donne abili e caparbie, che in silenzio e con tenacia, come solo le donne a volte sanno fare, stanno portando avanti una battaglia decisiva: difendere l’archeologia e la professionalità delle donne archeologhe in Italia.
Le paladine dell’archeologia italiana, mosse dall’indignazione ancor prima che dalla disperazione, si incontreranno a Siena il 9 e il 10 luglio prossimi, nell’ambito della manifestazione nazionale “Se non ora quando”, prossima tappa di un movimento, tutto al femminile, che dallo scorso 13 febbraio sta cambiando il corso della politica in Italia, sta facendo tremare le frange più maschiliste dell’establishment dominante e sta restituendo alle donne il ruolo di protagoniste attive che ad esse spetta nella società.
A Siena, anche le archeologhe diranno la loro, porteranno le loro storie di vita da cantiere, con la sveglia alle 7.30 di mattina, nessuna garanzia di lavorare per più di qualche settimana al mese, uno stipendio mensile di meno di 1000 euro, contratti a tempo, la ricerca confinata nel fine settimana o peggio di notte, pur di aggiungere qualche pubblicazione al proprio curriculum, i mille lavoretti sottopagati (lezioni private, correzione di bozze, visite guidate, call center) a cui ci si arrende per arrotondare e pesare il meno possibile sulle finanze della famiglia di origine e, perché no, pensare ad un progetto di vita che contempli una casa, dei figli… oltre al lavoro.
A Siena convergeranno anche quelle archeologhe stanche di resistere, che hanno appeso la trowel al chiodo e abbandonato le proprie aspirazioni tra i ruderi di qualche sito archeologico, che nessuno mai conoscerà perché, causa l’assenza di finanziamenti, è stato sepolto sotto la vegetazione o peggio distrutto.
Tutte assieme, unite dalla stessa passione e mosse dallo stesso sentimento di rabbia, le archeologhe italiane proveranno a spiegare, a chi si ostina a non capire, che ruolo esse abbiano nella società moderna e perché sia importante creare un organico ed efficiente mercato del lavoro, con diritti riconosciuti oltre che con doveri, che ruoti attorno alla difesa del patrimonio culturale.
Le archeologhe che (r)esistono il 9 e il 10 luglio, a Siena, tenteranno ancora una volta di smuovere le coscienze assopite di chi pensa che di cultura non si viva e che basti affossarla, mortificarla, offenderla per pareggiare i conti e salvare le sorti di una nazione. Probabilmente, tutto questo fermento non basterà a frenare la deriva culturale del Paese. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Se non ora quando?
Intanto, penso che il prossimo anno dovrò rinnovare la mia carta d’identità.
Cosa dirò, alla funzionaria di turno, che mi chiederà quale professione esercito?
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Giovanna Baldasarre